Tutti pazzi per il Poke, ma è davvero salutare?

Colorata, salutare e tremendamente fotogenica, la poke bowl spopola sulle tavole italiane da un paio d’anni e la sua ascesa nella classifica dei cibi preferiti non accenna ad arrestarsi.

Un giro d’affari (secondo StartupItalia) che, nel mondo, arriverà a 1,94 miliardi di dollari da qui al 2023. Solo in Italia le app di food delivery hanno registrato un incremento senza precedenti degli ordini di poke (Deliveroo con un + 162%; Glovo con un + 245%; Just Eat con un + 200%), forse a causa di locali spesso con pochi posti a sedere e per il fatto che il piatto viene servito freddo. Per capirne il successo, basta seguire su Instagram l’hashtag #poke per vedere che conta quasi due milioni di post a sottolinearne l’indiscussa bellezza di colori e geometrie.

Ma mi dispiace darvi una delusione nel dire che il poke in Italia, e al di fuori delle Hawaii in generale, non esiste.

Com’è la vera poke?

Tutto il mondo ha infatti abbracciato la filosofia della healthy bowl – composta da una base di riso, pesce, frutta e verdura – senza probabilmente sapere che nel suo Paese d’origine viene preparata con soli quattro ingredienti, che ne fanno un piatto buono e sano ma non certo bello. Tonno pinne gialle (o pesce di barriera) crudo, alghe fresche, sale marino e noci kukui tritate e tostate sono gli unici componenti del poke tradizionale, nato quando i Polinesiani navigarono per la prima volta attraverso il Pacifico fino alle Hawaii, già nel 400 d.C. Se in principio era considerato un piatto della cucina casalinga, tipico dei pescatori di Honolulu, è ormai entrato nei menù dei ristoranti grazie ad alcuni chef rinomati.

Nascita di una moda

Negli USA, culla del boom di questo food trend, si parla di poke già dalla fine degli anni Settanta e anche se lo chef Sam Choy, uno dei primi promotori del movimento Hawai’i Regional Cuisine dei primi anni ’90, è stato determinante nel portare il poke alle masse, il giro d’affari ha iniziato a farsi interessante nel 2007 e, ad oggi, la California è lo stato a più alta densità di poke negli Stati Uniti. Dal 1991, inoltre, ogni anno a marzo si svolge negli USA un concorso di poke a cui partecipano chef e cuochi amatoriali.

Secondo l’istituto di ricerca Technavio il mercato globale del poke nel 2018 si è svolto tutto negli Stati Uniti, anche se l’Europa ha avuto la crescita più importante negli ultimi dodici mesi, e adesso il poke si prepara a invadere l’Asia.

Niente riso, salsa o frutta, quindi, ma solo pesce fresco e poco più fino a quando il settore del benessere applicato al cibo ha visto il proliferare di franchising dall’arredamento accattivante e colorato dove trovare ogni tipo di variazione sul tema: ne esiste anche una versione mediterranea con frutta, pesce e verdura. L’abbondante quantità di riso che sta alla base trasforma il poke da uno spuntino a un pasto completo.

La Poke Bowl è davvero salutare?

Ma perché la Poke bowl è considerato un healthy food? Semplicemente perché unisce tutti i nutrienti dei quali si abbia bisogno per un pasto bilanciato. In una poke bowl che si rispetti non manca nulla: carboidrati, vitamine, sali minerali e proteine.

Ma a patto che si scelgano i giusti ingredienti senza aggiunta di salse

dice la nutrizionista Elanor Giardina Papa

“Riso, meglio se integrale o nero, pesce, verdura o frutta sono l’ideale. Anche una piccola dose di avocado è ammessa”.

Fondamentale nella preparazione della poke bowl versione occidentale è l’estetica: tutti gli ingredienti sono disposti in maniera ordinata, simmetrica e coerente per colore per soddisfare la vista e solleticare il palato.

Non dimentichiamo, infine, che parte del processo di divulgazione di un piatto è insegnare e spiegare anche come pronunciarne correttamente il nome. Perciò Mark Noguchi, chef e proprietario della catena hawaiana Pili chiarisce che di dice poh-kay non poké o altro.